Con Ordinanza pubblicata il 18/07/2023 (n. 20800/2023), la Corte di Cassazione ha ripercorso i criteri di calcolo da applicare nella quantificazione del danno risarcibile dal contraffattore, anche quando l’attività di contraffazione sia incolpevole.
Il caso
La questione esaminata dalla Corte riguardava l’importo del risarcimento riconosciuto in favore del titolare dei diritti su un marchio, violati da parte di due società.
In particolare, il titolare del marchio lo aveva concesso in licenza ad una prima società che, violando i limiti temporali e territoriali della licenza, lo aveva sublicenziato ad una seconda società, del tutto ignara dei limiti imposti dalla prima licenza.
Nei primi due gradi di giudizio, entrambe le società licenziatarie erano state condannate al risarcimento del danno conseguente all’illecito utilizzo del marchio e, per entrambe, tale danno era stato quantificato applicando il criterio della retroversione degli utili.
Il giudizio dinanzi alla Cassazione si concentra soprattutto sul ricorso incidentale presentato dalla società sublicenziataria. Quest’ultima sosteneva infatti che, non essendo colpevole della contraffazione, non potesse applicarsi nel suo caso un criterio risarcitorio nella determinazione dell’importo risarcibile, ma soltanto un criterio di tipo restitutorio.
L’irrilevanza dell’elemento soggettivo nella determinazione del quantum risarcitorio
Pronunciandosi sul ricorso della società incolpevole, la Corte ha affermato che, ai sensi dell’art. 125 c.p.i., il titolare del diritto di privativa violato può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, senza che sia necessario dimostrare il dolo o la colpa dell’agente.
Quindi il contraffattore, pur avendo agito in mancanza dell’elemento soggettivo, deve comunque restituire al titolare dei diritti gli utili realizzati attraverso la violazione.
Ripercorrendo i precedenti orientamenti giurisprudenziali sul tema, la Corte ricorda altresì che il meccanismo di quantificazione del danno previsto dall’art. 125 c.p.i. ha un carattere composito, perché si tratta di un rimedio di tipo restitutorio che si ispira però anche a logiche compensatorie, dissuasive e deterrenti.
Infatti, la norma citata prevede che “in ogni caso” il titolare del diritto leso possa chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi superino il risarcimento del lucro cessante. In tal modo, oltre al mancato guadagno, il titolare del diritto può chiedere la restituzione di benefici che egli non avrebbe ottenuto neppure in assenza della violazione perché, per esempio, essendo meno attrezzato o meno efficiente rispetto allo sleale e illegittimo competitore, non avrebbe avuto la capacità di operare nello stesso modo sul mercato.
La norma mira quindi a impedire che il contraffattore tragga profitti dal proprio illecito e che si possano pianificare attività contraffattive remunerative: se si riconoscesse al titolare del diritto leso solo il diritto al ristoro del mancato guadagno, alcuni operatori potrebbero comunque organizzare un’attività di contraffazione di per sé vantaggiosa, anche considerando il loro obbligo di risarcire il titolare del mancato guadagno, perché potrebbero contare sul lucro costituito dalla differenza tra il mancato guadagno del titolare (da risarcire) ed il proprio maggior profitto (che potrebbero ritenere).
Sulla base di tali considerazioni, la Corte non ha accolto le argomentazioni della società incolpevole, riaffermando che il rimedio della restituzione degli utili prescinde dalla condotta dolosa o colpevole del contraffattore.
Ilaria Feriti