Nullità del marchio “TAFFO”. La decisione del Tribunale di Roma

Con la sentenza del 15 maggio 2024, il Tribunale di Roma ha dichiarato la nullità del marchio “TAFFO” segnando una svolta significativa in una lunga disputa familiare.

Il caso ha origine da questioni relative alla titolarità del marchio, usato per decenni dalla famiglia Taffo, nota nel settore delle agenzie funebri. Il marchio, strettamente legato al nome della famiglia e alla sua attività commerciale, è stato al centro di conflitti che hanno coinvolto più generazioni di eredi.

La sentenza ha riconosciuto la registrazione in mala fede del marchio da parte di uno dei discendenti, confermando la nullità del segno ai sensi dell’art. 19 del Codice della Proprietà Industriale (C.P.I.).

Breve premessa sulle vicende relative alla titolarità del marchio

La controversia affonda le sue radici negli anni ‘40, quando il Sig. Gaetano Taffo, fondatore della società “Taffo Gaetano S.n.c.”, iniziò a utilizzare il marchio “TAFFO” per identificare i servizi funebri forniti dalla sua azienda. Negli anni successivi, l’impresa si espanse, grazie all’ingresso dei figli e dei nipoti di Gaetano, che portarono la società a operare sotto la denominazione “Taffo Gaetano & Figli S.n.c.” continuando a utilizzare il marchio come segno distintivo.

Dopo la morte del fondatore, l’azienda venne ereditata dai suoi quattro figli, che gestirono l’attività in regime di comunione d’impresa, coinvolgendo altre società familiari, come l’Agenzia Funebre Taffo di Taffo G. & C. S.a.s. di Giulia Taffo e Taffo S.r.l. Tuttavia, nel 2015, i membri della famiglia decisero di separare le proprie attività. Con un accordo transattivo dell’11 febbraio 2016, fu regolato l’uso del marchio “TAFFO”, stabilendo specifiche modalità per il suo sfruttamento commerciale.

Nonostante l’accordo, sorsero contrasti quando uno degli eredi registrò il marchio in proprio nome, senza il consenso degli altri membri della famiglia.

La registrazione in mala fede del marchio

Uno dei punti chiave del caso è stata la “registrazione in mala fede”, istituto disciplinato ex art. 19 del Codice della Proprietà Industriale (C.P.I.). Tale articolo stabilisce al comma 1 che “può ottenere una registrazione per marchio d’impresa chi lo utilizza o si propone di utilizzarlo nella fabbricazione o commercio di prodotti o nella prestazione di servizi analoghi”.

La giurisprudenza italiana e comunitaria ha più volte chiarito che la “registrazione di un marchio in mala fede” si verifica quando il richiedente ha intenzione di “abusare” dei diritti di proprietà intellettuale per scopi contrari ai principi di correttezza e buona fede. In particolare, il marchio non può essere registrato per precludere agli altri legittimi titolari o utilizzatori il suo uso, né per ottenere un vantaggio indebito, soprattutto se la registrazione avviene senza il consenso di tutti gli aventi diritto, come nel caso in esame.

Nel caso “TAFFO”, il Tribunale di Roma ha evidenziato che il richiedente del marchio, uno degli eredi, non aveva agito nel rispetto degli accordi familiari precedenti e delle aspettative legittime degli altri membri della famiglia. In particolare, la registrazione è stata considerata un tentativo di “appropriazione indebita” di un segno distintivo che, nel corso degli anni, era diventato un simbolo familiare, utilizzato da più società riconducibili alla famiglia Taffo.

Conclusione

La sentenza del Tribunale di Roma del 15 maggio 2024 segna una tappa importante nella giurisprudenza italiana sulla nullità dei marchi, evidenziando come la mala fede possa essere dedotta da diversi elementi tra cui la violazione di accordi preesistenti.

Nel caso TAFFO, il Tribunale ha ritenuto che l’erede avesse violato i principi di buona fede e correttezza, tentando di appropriarsi di un segno distintivo che apparteneva alla famiglia. Tale comportamento ha giustificato la dichiarazione di nullità del marchio ai sensi dell’art. 19 CPI, sottolineando l’importanza di rispettare gli accordi e le aspettative legittime degli altri aventi diritto nel contesto familiare e commerciale.

 

Carlo Callea