La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 11959/2020, si è pronunciata in merito alla qualifica dei files come “cose mobili” modificando il precedente orientamento in senso contrario.
La decisione prende le mosse dalla vicenda di un ex dipendente di azienda, assunto presso un’altra azienda nello stesso settore, al quale veniva chiesto di restituire il notebook aziendale.
Al momento della restituzione, l’hard disk risultava privo dei dati informatici originariamente presenti, poi ritrovati nella disponibilità del medesimo sul computer personale sottoposto a sequestro. La formattazione dell’hard disk, oltre ad avere cancellato i dati, aveva provocato il malfunzionamento del sistema informatico aziendale.
Si è quindi posto il problema se, cancellando e sottraendo i files, il soggetto si fosse reso colpevole di appropriazione indebita, reato che ha ad oggetto le cose mobili.
In precedenza era stato escluso che i files potessero essere oggetto del reato di cui all’art. 624 c.p. in quanto per loro natura non rendono possibile la realizzazione dell’elemento oggettivo previsto dalla norma, ossia la perdita del possesso della res da parte del legittimo detentore.
Allo stesso modo, con riguardo alla fattispecie dell’appropriazione indebita, era stato più volte affermato che un bene immateriale non può essere oggetto materiale della condotta lesiva, salvo che la condotta non abbia ad oggetto i documenti che rappresentano beni immateriali.
Le precedenti pronunce traevano spunto dal tenore letterale della norma incriminatrice e richiamavano la nozione di cosa mobile caratterizzata dalla necessità che la cosa sia suscettibile di «fisica detenzione, sottrazione, impossessamento od appropriazione, e che a sua volta possa spostarsi da un luogo ad un altro perché ha l’attitudine a muoversi da sé oppure può essere trasportata da un luogo ad un altro o, ancorché non mobile ab origine, resa tale da attività di mobilizzazione ad opera dello stesso autore del fatto, mediante sua avulsione od enucleazione».
La Corte ha ritenuto invece necessario approfondire l’esame e partendo da un’analisi della struttura del file ha ritenuto che lo stesso possieda una dimensione fisica costituita dalla grandezza dei dati che lo compongono, come dimostrano l’esistenza di unità di misurazione della capacità di un file di contenere dati e la differente grandezza dei supporti fisici in cui i file possono essere conservati e elaborati.
A conferma della possibilità che il documento informatico possa essere oggetto di condotte di sottrazione e appropriazione, la Corte ha fatto riferimento alla «capacità dei files di essere trasferiti da un supporto informatico ad un altro, mantenendo le proprie caratteristiche strutturali, così come la possibilità che lo stesso dato viaggi attraverso la rete internet per essere inviato da un sistema o dispositivo ad un altro sistema, a distanze rilevanti, per essere “custodito” in ambienti virtuali».
Queste considerazioni, in aggiunta all’indiscusso valore patrimoniale che il dato informatico possiede, hanno convinto il Giudice a ritenere che la limitazione che deriverebbe dal difetto del requisito della “fisicità” della detenzione non costituisce elemento in grado di ostacolare la riconducibilità del dato informatico alla categoria della cosa mobile.
Alla luce delle considerazioni sopra riportate, la Corte ha quindi affermato il seguente principio:
«pur se difetta il requisito della apprensione materialmente percepibile del file in sé considerato (se non quando esso sia fissato su un supporto digitale che lo contenga), di certo il file rappresenta una cosa mobile, definibile quanto alla sua struttura, alla possibilità di misurarne l’estensione e la capacità di contenere dati, suscettibile di esser trasferito da un luogo ad un altro, anche senza l’intervento di strutture fisiche direttamente apprensibili dall’uomo».
L’affermazione teorica ha importanti conseguenze pratiche in quanto se i dati sono beni mobili, tutti i reati previsti per la sottrazione di beni mobili si applicheranno anche alla sottrazione di file.