La Corte di Cassazione, con sentenza n. 18826 del 29.04.2013, ha stabilito che usare il nickname ed i dati identificativi di un’altra persona in rete configura il reato di sostituzione di persona previsto dall’art. 494 c.p.
Il caso di specie è piuttosto singolare. Una signora aveva pubblicato in una chat erotica il nickname ed il numero di telefono dellla sua ex datrice di lavoro che si era quindi vista recapitare sul proprio cellulare messaggi hard e foto a contenuto pornografico.
In precedenza si erano già verificati casi di persone che avevano richiesto indirizzi di posta elettronica o aperto profili su social network utilizzando i dati personali di terzi. La giurisprudenza era già interventua in materia stabilendo che integra il reato di sostituzione di persona di cui all’art. 494 c.p. «la condotta di colui che crei ed utilizzi un account di posta elettronica, attribuendosi falsamente le generalità di un diverso soggetto, inducendo in errore gli utenti della rete internet, nei confronti dei quali le false generalità siano declinate e con il fine di arrecare danno al soggetto le cui generalità siano state abusivamente spese» (Cass. pen., 15/12/2011-03/4/2012 n. 12479; Cass. pen. 08/11/2007-04/12/2007 n. 46674). Parlare di sostituzione di persona nel particolare caso di specie non sembra però del tutto corretto ma la Corte ha dato alla norma una lettura evolutiva.
La Corte chiarisce che anche se «l’imputata non ha creato un account attribuendosi falsamente le generalità di un altro soggetto» si configura comunque il reato contestato in quanto la norma salvaguarda «oltre alla fede pubblica, anche la protezione dell’identità dei terzi, che può essere pregiudicata non solo da possibili usurpazioni, ma anche dall’attribuzione al terzo di falsi contrassegni personali, allo scopo di arrecargli un danno». Pertanto «il nickname, quando, come nel caso concreto, non vi siano dubbi sulla sua riconducibilità ad una persona fisica, assume lo stesso valore dello pseudonimo (in presenza di determinati presupposti, assimilato al nome agli effetti della tutela civilistica del diritto alla identità ai sensi dell’articolo 9 Codice Civile) ovvero di un nome di fantasia, la cui attribuzione, a sé o ad altri, integra pacificamente il delitto di cui all’articolo 494 Codice Penale».
L’imputata è stata quindi condannata per il reato di cui all’art. 494 c.p. La Corte ha precisato che la sua non è stata una lettura estensiva della norma, che sarebbe vietata, ma una interpretazione coerente finalizzata a non lasciare prive di tutela le situazioni giuridiche che la legge intente salvaguardare.