Ancora una sentenza sulla vicenda del marchio “Buddha Bar”.
Come forse alcuni ricorderanno, il celebre marchio è già stato oggetto di un procedimento innanzi al Tribunale ed alla Corte di Appello di Milano, conclusasi con la sentenza n. 1277/2016 della Corte di Cassazione con la quale è stata confermata la nullità in Italia del marchio in questione, nonché del marchio “Buddha cafè” per carenza di idoneità distintiva e per contrarietà all’ordine pubblico, in quanto offensivi del sentimento religioso buddista.
La nuova vicenda trae invece origine da un giudizio introdotto davanti al Tribunale e Corte d’Appello di Firenze, conclusosi con la recente sentenza della Corte di Cassazione n. 4771 del 28 febbraio 2018.
In particolare, il Tribunale di Firenze, nel 2011, emetteva una sentenza di rigetto delle domande di accertamento negativo della contraffazione e di risarcimento del danno proposte dalle titolari ed utilizzatrici del marchio “Buddha bar Nirvana Lounge”, le società Vintage S.r.l. e la B.S., nei confronti delle società francesi, attive nel settore della ristorazione, intrattenimento, produzione fonografica e vendita di abbigliamento e gadget, la George V Restauration s.a. e George V Records s.a. e della società italiana San Carlo dal 1973 S.r.l., titolari del marchio comunitario e internazionale designante l’Italia “Buddha Bar”. La Corte fiorentina accoglieva invece le domande riconvenzionali proposte dalle convenute e finalizzate all’accertamento della nullità del marchio delle attrici.
In seguito, la Corte di Appello di Firenze, con sentenza del 2013, respingeva l’appello delle soccombenti in primo grado (la Vintage S.r.l. e la B.S.) precisando, tra le altre questioni, che la domanda di nullità dei marchi delle società francesi avanzata per la prima volta in appello dalle soccombenti del primo grado non potesse essere esaminata in quanto non tempestivamente proposta innanzi il Tribunale e non rilevabile d’ufficio, indicando però la legittimazione all’azione del pubblico ministero.
La Corte di Cassazione, con la sentenza sopra citata, rigettava il ricorso delle soccombenti in primo e secondo grado e confermava quanto sostenuto dalla Corte d’Appello di Firenze, la quale, secondo i giudici di legittimità, aveva ben interpretato – in merito al potere del giudice di rilevare d’ufficio la nullità di un marchio in qualsiasi fase e stato del giudizio – l’art. 122, comma 1, del Codice della Proprietà Industriale (C.P.I.), ai sensi del quale: “… l’azione diretta ad ottenere la dichiarazione di decadenza o di nullità di un titolo di proprietà industriale può essere esercitata da chiunque vi abbia interesse e promossa d’ufficio dal pubblico ministero. In deroga all’art. 70 del codice di procedura civile l’intervento del pubblico ministero non è obbligatorio”.
Secondo le società ricorrenti, la nullità del marchio sarebbe sempre rilevabile d’ufficio, se dipendente da illiceità.
La Corte di Cassazione ha invece ritenuto che né l’art. 122 né altra disposizione del C.P.I. prevede che il giudice possa dichiarare d’ufficio la nullità di un marchio, il quale ha soltanto la facoltà di sollecitare l’intervento del pubblico ministero. Tale conclusione è d’altronde coerente con la disciplina comunitaria, la quale è attenta ad escludere il rilievo d’ufficio ed a limitare la stessa legittimazione a far valere la nullità di un marchio.
I giudici di legittimità, tenuto conto di quanto sopra, hanno pertanto enunciato il seguente principio di diritto:
“In ragione della presunzione semplice di validità dell’avvenuta registrazione del marchio in presenza dei requisiti previsti dalla legge, il giudice non può rilevarne d’ufficio la nullità, conservando peraltro, nei casi previsti dall’art. 122, comma 1, cod. propr. Ind., la facoltà di sollecitare il pubblico ministero per le sue autonome determinazioni in ordine all’esercizio dell’azione”.