La Cassazione dichiara la nullità del marchio “spaghetto quadrato”

Con ordinanza n. 53/2022 la Suprema Corte ha confermato la nullità del marchio “spaghetto quadrato” di titolarità della società La Molisana S.p.A., ponendo fine alla querelle tra la stessa e la Barilla.

Il Supremo Collegio ha infatti rigettato il ricorso della società molisana avverso la sentenza della Corte di Appello di Roma del 16 maggio 2017, che a sua volta aveva confermato la decisione del Tribunale di Roma del 10 aprile 2016, con cui i giudici capitolini avevano dichiarato la nullità del marchio in questione.

Il caso

La vicenda ha preso le mosse dal deposito, nel novembre 2012, della domanda di registrazione come marchio in Italia del segno “spaghetto quadrato” da parte di La Molisana per contraddistinguere l’intera classe 30, che comprende la pasta. Si trattava di un marchio denominativo, ossia costituito esclusivamente da parole. L’UIBM (Ufficio Italiano Brevetti e Marchi), che non effettua alcun esame di novità sui marchi depositati, nel luglio 2013 concedeva la registrazione.

Poiché l’esclusiva conferita al titolare di un marchio registrato consente al medesimo di vietare ai terzi l’uso dello stesso segno per prodotti identici o affini – e dunque in questo caso l’espressione “spaghetto quadrato” anche per pasta (e, in particolare, per spaghetti con tale forma) – Barilla ha deciso di opporsi promuovendo una causa diretta a far accertare la nullità del marchio per mancanza di distintività.

In effetti, uno dei requisiti del marchio è la capacità distintiva, vale a dire l’idoneità del segno a consentire ai consumatori di identificare l’origine imprenditoriale del prodotto contraddistinto da tale marchio.

Segnatamente, l’art. 13, comma 1 CPI (Codice della Proprietà Industriale) prevede che “non possono costituire oggetto di registrazione come marchio d’impresa i segni privi di carattere distintivo e in particolare:

  • a) quelli che consistono esclusivamente in segni divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o negli usi costanti del commercio;
  • b) quelli costituiti esclusivamente dalle denominazioni generiche di prodotti o servizi o da indicazioni descrittive che ad essi si riferiscono, come i segni che in commercio possono servire a designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica ovvero l’epoca di fabbricazione del prodotto o della prestazione del servizio o altre caratteristiche del prodotto o servizio”.

Lo scopo della norma è di impedire che la privativa si traduca in un “indebito” vantaggio competitivo per il titolare del marchio, che di fatto potrebbe impedire, oltretutto in perpetuo (visto che la registrazione può essere rinnovata di dieci anni in dieci anni senza limiti), a tutte le altre imprese concorrenti di impiegare un segno che, al contrario, deve rimanere liberamente utilizzabile.

Conclusioni

Alla luce di questa norma, sia il Tribunale di Roma, adito in primo grado, sia la Corte d’Appello capitolina in secondo grado, hanno essenzialmente affermato che il marchio “spaghetto quadrato” è da ritenersi nullo ab origine per carenza di distintività.

In particolare, secondo la corte territoriale il marchio “spaghetto quadrato” ha “natura integralmente descrittiva, in quanto corrispondente al prodotto alimentare ed avente un chiaro significato lessicale comune, diffuso nell’uso sociale collettivo, per indicare un prodotto alimentare della tradizione italiana, lo spaghetto, in una sua caratteristica esteriore non più cilindrica, come storicamente e tradizionalmente sempre utilizzata, ma in quella «più recente e moderna», avente «sezione orizzontale quadrata»”.

Tuttavia, c’è da considerare che in talune ipotesi, previste dai commi 2 e 3 dello stesso articolo sopra citato, vale l’eccezione che conferma la regola: si tratta, in particolare, dei casi in cui il marchio, a seguito dell’uso che ne è stato fatto dal titolare, abbia acquisito carattere distintivo prima del deposito della domanda di registrazione o, al limite, prima della domanda di nullità o della eccezione di nullità, quest’ultima evidentemente sollevata come difesa dal convenuto in un procedimento per contraffazione in relazione al marchio asseritamente contraffatto di titolarità dell’attore. È il fenomeno del c.d. “secondary meaning”, una sorta di “convalidazione del segno”, come ricordato dagli ermellini.

Ebbene, è proprio l’accertamento dell’acquisito del secondary meaning che la società convenuta ha chiesto in via subordinata ai giudici. Tuttavia, in tutti e tre i gradi del giudizio, anche questa domanda è stata rigettata.

Da notare però che, pur giungendo alla stessa conclusione, la corte territoriale e la Cassazione divergono nell’identificare quale sia l’oggetto dell’onere della prova per chi invoca la sussistenza del secondary meaning.

Infatti, la prima ha affermato che “attesa l’esigua durata dell’uso, pari a 14 mesi, tanto più in un marchio estremamente debole come questo… difetta la prova di investimenti pubblicitari di adeguata capacità diffusiva ed economica, tali da realizzare, in breve tempo, un fenomeno conoscitivo presso il pubblico”.

La Suprema Corte ha invece sottolineato che, pur dipendendo il secondary meaning dall’uso intenso del segno (riconoscendo la stessa che spesso “è soprattutto grazie a massicci investimenti pubblicitari ed azzeccate strategie di marketing” che un segno acquisisce quel carattere distintivo in origine assente) “oggetto dell’onere della prova non è l’esistenza di investimenti pubblicitari in sé, ma la rinomanza acquisita dal segno”. Tuttavia, questo è un accertamento di fatto che compete ai giudici del merito e, come tale, è insindacabile in sede di legittimità, se il ragionamento è esente da vizi.

La sentenza si pone nel solco della giurisprudenza comunitaria (si vedano, fra le tante, le decisioni della CGE del 4 maggio 1999 nelle cause C-108/97 & C-109/97, Chiemsee) che ha individuato quali fattori rilevanti per l’accertamento del carattere distintivo acquisito, tra gli altri, i seguenti: la quota di mercato detenuta dal marchio in relazione ai prodotti o servizi rilevanti; l’intensità, l’estensione geografica e la durata dell’uso del marchio; l’entità degli investimenti effettuati dall’impresa per promuoverlo in relazione ai prodotti e servizi di cui trattasi; la percentuale degli ambienti interessati che identifica i prodotti o i servizi come provenienti da un’impresa determinata grazie al marchio.

Nel caso di specie, comunque, il secondary meaning non è stato riconosciuto e pertanto il marchio è stato ritenuto nullo.

 

 Maria Roberta Bagnoli