La Corte di Cassazione nella sentenza n. 20716 del 04.09.2017 ha affrontato lo spinoso tema del risarcimento del danno da contraffazione brevetto ribadendo alcuni importanti principi.
Nel caso di specie una società italiana, accusata di avere contraffatto il brevetto di un’impresa tedesca, è stata condannata a risarcire il danno sofferto dalla titolare del brevetto anche se l’impresa tedesca non aveva fornito prova di avere sofferto un vero danno diretto.
Nel caso di specie, infatti, la titolare del brevetto non aveva accusato una diminuzione del fatturato e quindi alcuna perdita economica e questo, secondo il presunto contraffattore, era un elemento che la Corte avrebbe dovuto tenere in considerazione per giungere a negare la condanna.
L’impresa italiana ha sostenuto infatti che il Giudice può quantificare il danno ricorrendo ai criteri previsti dall’art. 125 CPI solo a condizione che sia stato precedentemente dimostrato che un danno vi è effettivamente stato.
La Corte di Cassazione ha invece ribadito che quando un prodotto è commercializzato il danno vi è sempre e non occorre provarlo (Cass. 4739/2012). Soltanto quando un prodotto non è sul mercato occorre dare prova di un danno concreto che non può essere desunto direttamente (Cass. 12545/2004).
In merito alla quantificazione la Corte ha ritenuto corretto il metodo di calcolo utilizzato dal Tribunale prima e dalla Corte di Appello poi, le quali hanno tenuto in considerazione il criterio della c.d. “giusta royalty”.
I criteri principali per calcolare il danno sono il “danno emergente” ed il “lucro cessante”.
Il primo consiste nelle perdite che subisce il titolare del brevetto a seguito della contraffazione. Nel caso di specie, però, come abbiamo visto il titolare non ha subito alcuna perdita in quanto i suoi affari sono continuati come prima anche dopo che la contraffazione era in atto, per cui questo criterio è risultato inutilizzabile.
Il lucro cessante è rappresentato dal guadagno che il contraffattore ha fatto violando il brevetto. Nel corso del giudizio era però mancata la prova di un vero e proprio guadagno in quanto non erano state depositate scritture contabili che potessero consentire al Giudice di calcolare in modo preciso gli utili derivanti dalla vendita del prodotto contestato.
I giudici di merito hanno pertanto adottato il criterio previsto dall’art. 125, comma 2, CPI della “giusta royalty” calcolata nel caso di specie al ribasso in quanto hanno ritenuto che l’apporto innovativo dell’invenzione fosse modesto.
Al di là della quantificazione in sé, la Cassazione ha nuovamente ribadito la doverosità di condannare il contraffattore a risarcire un danno, indipendentemente dalla prova dello stesso, ogni qualvolta risulti provata la contraffazione e la commercializzazione del prodotto illecito.
Ovviamente queste due prove devono essere necessariamente fornite e nel caso di specie così è stato, per cui si è potuto procedere ad una quantificazione ricorrendo, in assenza di altre prove acquisite, al principio “residuale” della giusta royalty particolarmente utile in casi del genere.