La trasmissione a causa di morte del patrimonio digitale è un fenomeno che negli ultimi anni ha assunto una rilevanza primaria ma che, ancora oggi, presenta numerosi profili di incertezza e complessità.
Si pensi ai file archiviati digitalmente, ai messaggi di posta elettronica o agli account social. Può trattarsi di dati che hanno un valore solo affettivo per gli eredi o che, come spesso accade, sono suscettibili di valutazione economica.
La ricostruzione della disciplina applicabile a questi casi deve affrontare due ordini di problemi.
In primo luogo, la legislazione italiana in materia successoria risale al 1942 e, per quanto mirabile sotto il profilo sistematico, non sembra sufficiente a rispondere a tutti gli interrogativi che pone l’età contemporanea: l’avvento delle nuove tecnologie e l’affermazione di nuove forme di tutela impongono uno sforzo interpretativo in chiave fortemente evolutiva.
Il secondo profilo problematico riguarda la concreta applicabilità delle soluzioni a disposizione degli utenti e dei loro eredi in un contesto sostanzialmente rimesso alla discrezionalità dei provider di servizi digitali.
Se l’utente muore senza aver lasciato disposizioni riguardo al proprio patrimonio digitale e i dati sono protetti da password, è difficile stabilire quali diritti abbiano gli eredi.
Per rispondere, è utile il riferimento al servizio offerto da un comune provider, quale potrebbe essere Google. Con la creazione di un account l’utente può fruire di diversi servizi, come quelli di posta elettronica e di archiviazione dati. L’eterogeneità dei dati associati all’account implica però una valutazione differenziata delle conseguenze sul piano successorio e, al pari di quanto avviene nella ricostruzione dell’asse ereditario, ci saranno dei diritti trasmissibili e dei diritti intrasmissibili.
Si immagini l’account come un baule chiuso a chiave dal de cuius e rinvenuto dagli eredi all’apertura della successione. Per quanto possa sembrare atecnico, il paragone costituisce in verità un criterio largamente invalso nella dottrina.
Se paragoniamo le credenziali di accesso all’account alla chiave del baule, può senz’altro concludersi che gli eredi abbiano il diritto di forzare il baule per aprirlo, oppure di rivolgersi a un fabbro per ottenere copia della chiave. Si tratta, infatti, di un bene caduto in successione e quindi entrato nella disponibilità degli eredi. Se questo è vero, non è altrettanto vero che il contenuto del baule sia automaticamente trasmissibile agli eredi: se nel baule sono presenti beni di terzi che il de cuius si limitava a custodire, la proprietà di quei beni, mai stata del defunto, non sarà neppure trasmissibile.
Trasponendo queste considerazioni all’account, dovrebbe potersi affermare che gli eredi abbiano il diritto di ottenere dal provider le credenziali di accesso dopo la morte del defunto. L’accesso, pur non implicando la libera disponibilità dei dati, può infatti rivelarsi necessario anche per la ricostruzione del patrimonio ereditario del defunto.
Può accadere, ad esempio, che una vedova abbia interesse ad accedere all’account del defunto marito per recuperare le fotografie del loro matrimonio, conservate digitalmente in un archivio cloud protetto da password. È possibile altresì che gli eredi di un noto scrittore intendano accedere all’archivio digitale del defunto per recuperare l’opera inedita dell’autore, rimasta tale proprio a causa del decesso. In entrambi i casi si tratta di un accesso a materiali che, per effetto della successione, sono entrati nel patrimonio degli eredi, a prescindere dal valore affettivo o patrimoniale che gli venga attribuito.
Diverso sarebbe se attraverso le credenziali del defunto gli eredi accedessero a dati aziendali: in questo caso, si tratterebbe di dati che non erano nella libera disponibilità del de cuius e dunque gli eredi non sarebbero autorizzati né a richiedere le credenziali di accesso all’account aziendale del defunto né a disporre dei dati aziendali archiviati su account privati del defunto.
Le stesse conclusioni possono applicarsi alle caselle di posta elettronica: al pari della corrispondenza cartacea conservata dal de cuius nel baule chiuso a chiave, anche le mail sono dati a cui gli eredi hanno il diritto di accedere, sempre con le cautele appena viste relativamente ai contenuti di ciascuna mail.
Se questo è vero sotto il profilo teorico, sotto quello pratico ottenere le credenziali di accesso all’account di una persona defunta è un’operazione estremamente complessa.
Se non è possibile recuperare in alcun modo le credenziali di accesso del de cuius, nemmeno avvalendosi di tecnici specializzati, gli eredi dovranno rivolgersi direttamente al provider del servizio e confidare nella sua collaborazione.
A quel punto, oltre alla disciplina generale in materia di successione, verranno in rilievo anche le specifiche condizioni d’uso del servizio accettate in vita dal de cuius. L’utente infatti, con la creazione di un account, conclude un contratto con il provider del servizio i cui effetti si producono anche dopo il suo decesso e, soprattutto, anche nei confronti dei suoi eredi.
Google, per esempio, si riserva la facoltà di chiudere gli account degli utenti deceduti limitandosi a consentire agli eredi soltanto l’accesso a singoli contenuti e solo in specifiche circostanze (senza, peraltro, indicare quali). Le Condizioni d’uso di Facebook, invece, prescrivono l’automatica trasformazione dell’account dell’utente deceduto in “Commemorativo”, ossia in un account dal nome “In memoria di…” al quale nessuno può accedere, nemmeno se in possesso della password. La giustificazione addotta dai due provider appena citati sembrerebbe essere la tutela della riservatezza dei propri utenti, imposta dalle vigenti disposizioni in materia di privacy.
La motivazione tuttavia non appare condivisibile per due ragioni: innanzitutto il Reg. UE 2016/679 prevede espressamente che le norme sulla protezione dei dati personali non si applichino ai dati della persona defunta; in secondo luogo, dovrebbe quantomeno dubitarsi della liceità di un’approvazione preventiva e irrevocabile dell’utente al blocco o alla cancellazione dei propri dati dopo il decesso.
Queste considerazioni potrebbero essere fatte valere dagli eredi nell’ambito di un procedimento giudiziario ma la soluzione preferibile resta quella di prevedere in anticipo le sorti del proprio patrimonio digitale.
In attesa di un intervento organico del legislatore, oggi può farsi ricorso allo strumento del mandato post mortem, ossia all’accordo mediante il quale una parte comunica all’altra le proprie credenziali riservate, affidandole l’incarico di custodirle e comunicarle agli eredi dopo la propria morte.