Copiare un’app costituisce violazione del diritto d’autore su banca dati

Facebook è stata condannata per violazione del diritto d’autore sulla banca dati rappresentata dall’applicazione “Faround”, nonché per aver commesso atti di concorrenza sleale in danno di Business Competence, software house milanese a cui si deve lo sviluppo dell’app in questione.

Questo è quanto stabilito dalla Corte d’Appello di Milano nella sentenza n. 1916 del 16.04.2018 sull’an della violazione e nella sentenza n. 9 del 5.01.2021 sul quantum risarcitorio riformato nella somma di € 3.831.000.

Faround è un’applicazione per telefono mobile sviluppata da Business Competence nel 2012 che, tramite un algoritmo che seleziona ed organizza i dati presenti sui profili Facebook degli utenti, permette di visualizzare gli esercizi commerciali più vicini su una mappa interattiva. In funzione di ciò, l’app è stata registrata prima nel Facebook App Center in quanto ufficialmente collaudata ed approvata dal social network e, successivamente, nell’App Store di Facebook, quale app con esso compatibile.

Ebbene, tre mesi dopo il lancio di Faround, Facebook ha sviluppato l’applicazione Nearby che, tramite geolocalizzazione, consente agli utenti di individuare negozi, locali, ristoranti di prossimità.

In corso di causa è stato dimostrato che le funzionalità del programma realizzato da Facebook sono, di fatto, le medesime di Faround: le due applicazioni risultano estremamente simili per finalità ed impostazione generale, a nulla rilevando le riscontrate differenze grafiche e funzionali.

L’accertamento della violazione del diritto d’autore da parte di Facebook trova fondamento, in primo luogo, nel riconoscimento di Faround come opera dell’ingegno con carattere creativo e, nello specifico, quale banca dati implementata in forma di programma per elaboratore. La Corte milanese ha infatti ritenuto sussistente il prescritto requisito di originalità dell’opera in quanto la peculiare scelta e disposizione dei dati contenuti nell’app è espressione di una scelta libera e creativa dell’autore che, in tal modo, manifesta il suo apporto personale. Al riguardo, è stato inoltre precisato che la tutela autorale riguarda non la sola riproduzione ma anche “l’adattamento, la trasformazione e ogni altra modificazione” dell’opera le quali, in via generale, devono essere autorizzate dall’autore.

Per quanto riguarda invece la liceità dell’attività di analisi del programma di un terzo, la Corte ha ritenuto nulla la clausola contrattuale invocata dai legali di Facebook, secondo cui quest’ultimo si sarebbe riservato la facoltà di “analizzare le applicazioni, i contenuti e i dati per qualsiasi scopo, compreso quello commerciale”. La declaratoria di nullità si fonda sul presupposto che l’autonomia privata non può derogare ai limiti di liceità dell’attività di analisi, laddove questa venga svolta per finalità diverse da quelle tipiche, quale – in primis – quella di collaudo del programma.

Inoltre, ulteriore profilo di censura della condotta in esame è stato riscontrato nel fatto che Facebook ha beneficiato di un accesso “privilegiato ed anticipato” sia ad un prototipo dell’applicazione che ai flussi di dati che Faround scambiava con la piattaforma stessa. È stato quindi dimostrato che, prima che l’applicazione fosse resa pubblica, Facebook ha avuto la possibilità di analizzarne il funzionamento sia “lato utente” che “lato interazione col mondo Facebook”.

Infine, la condotta in questione è stata ritenuta illecita sotto il diverso profilo della concorrenza sleale in quanto Facebook sarebbe incorso in un’“appropriazione parassitaria di investimenti altrui per la creazione di un’opera dotata di rilevante valore economico”. Infatti, abusando del rapporto di fiducia ed affidamento generato con lo sviluppatore, l’azienda statunitense avrebbe sfruttato a suo vantaggio – senza sostenere eccessivi costi – i risultati dell’attività di ricerca, di sviluppo, nonché gli investimenti effettuati dallo sviluppatore.