Con sentenza n. 22225 del 19.1.2012, le Sezioni Unite hanno pronunciato il principio di diritto secondo il quale «non può configurarsi una responsabilità penale per l’acquirente finale di cose in relazione alle quali siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale».
Il caso che ha portato alla decisione in commento trae origine dalla condotta di un soggetto che aveva acquistato on-line per uso proprio un orologio “Rolex” contraffatto proveniente dalla Cina poi bloccato dalle Dogane e quindi mai arrivato all’acquirente.
Veniva contestata all’imputato la tentata ricettazione. Secondo la difesa dell’imputato, invece, la condotta in questione ricadeva nell’ambito di applicazione dell’illecito amministrativo di cui all’art. 1, comma 7 del d.l. n. 35 del 2005 (convertito in l. 14 maggio 2005, n. 80, nella versione modificata dalla legge 23 luglio 2009, n. 99).
Il reato di ricettazione (art. 648 c.p.) sussiste quando “Fuori dei casi di concorso nel reato, chi, al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, acquista, riceve od occulta denaro o cose provenienti da un qualsiasi delitto, o comunque si intromette nel farle acquistare, ricevere od occultare”. Presupposto necessario del reato in questione è che anteriormente ad esso sia stato commesso un altro delitto (c.d. reato presupposto). Proprio per questo spesso, nell’ambito dei processi penali aventi ad oggetto condotte di contraffazione/alterazione di segni distintivi registrati la ricettazione viene contestata in concorso con il reato di cui all’art. 474 c.p. (“Introduzione nello Stato e commercio di prodotti con segni falsi”) e ciò soprattutto alla luce della nota decisione delle Sezioni Unite del 7 giugno 2001, n. 23427 che espressamente ha ammesso il concorso tra le norme in questione.
L’illecito amministrativo previsto dal d.l. 14 marzo 2005, n. 35, invece, punisce (con la sanzione amministrativa pecuniaria da 100 Euro fino a 7.000 Euro) l’acquirente finale che acquista a qualsiasi titolo cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale.
Ebbene, prima del presente intervento della Suprema Corte, era ampio il dibattito su che tipo di responsabilità dovesse configurarsi in capo all’acquirente finale in casi come questi. In particolare si erano delineati due diversi filoni interpretativi: l’uno che configurava il reato di ricettazione sul presupposto che l’illecito amministrativo potesse considerarsi speciale (e quindi prevalente) solo rispetto all’ipotesi contravvenzionale dell’incauto acquisto (art 712 c.p.); l’altro che riconosceva sempre ai sensi dell’art. 9 della l. 689 del 1981, un rapporto di specialità dell’illecito amministrativo non solo rispetto all’incauto acquisto ma anche rispetto alla ricettazione. La soluzione adottata dalla Corte che si basa su una interpretazione sistematica delle norme accoglie quest’ultima tesi. Le differenze tra le due fattispecie sono notevoli: il reato di ricettazione può essere commesso da chiunque mentre l’illecito amministrativo è applicabile esclusivamente all’acquirente finale; l’oggetto dell’illecito sono “cose che, per la loro qualità o per la condizione di chi le offre o per l’entità del prezzo, inducano a ritenere che siano state violate le norme in materia di origine e provenienza dei prodotti ed in materia di proprietà industriale” mentre oggetto del reato sono “cose provenienti da un qualsiasi delitto”. Infine, anche sotto il profilo dell’elemento psicologico, posto che l’introduzione della formula “inducano a ritenere” (che ha sostituito la precedente “senza averne accertata la legittima provenienza”) ha consentito di allargare l’ambito applicativo della norma anche all’ipotesi di “piena consapevolezza” da parte dell’agente della provenienza illecita della merce.
Sicuramente questa sentenza delle Sezioni Unite avrà un effetto deflattivo di riduzione del carico dei procedimenti penali. Infatti, in questi ultimi tempi, vari Procuratori della Repubblica, facendo propria l’interpretazione più severa delle norme, avevano cercato di perseguire penalmente il sempre più numeroso esercito di consumatori finali che, sfruttando anche l’e-commerce, alimentano il mercato del falso.