No al copyright per l’opera d’arte creata da un’intelligenza artificiale

Con decisione del 14.02.2022, il Copyright Office degli Stati Uniti ha definitivamente rigettato la richiesta di tutelare attraverso il copyright l’opera d’arte creata da un’intelligenza artificiale.

L’opera in questione, intitolata “A Recent Entrance to Paradise”, è un’immagine bidimensionale realizzata in modo completamente automatizzato dalla macchina denominata “Creativity Machine”, ideata dal Dott. Stephen Thaler. In particolare, l’opera sarebbe la rappresentazione dell’aldilà elaborata, senza alcun intervento umano, attraverso la simulazione di un’esperienza pre-morte resa possibile dall’algoritmo scritto dallo scienziato statunitense.

Nel 2018, il Dott. Thaler aveva depositato una richiesta di registrazione dell’opera, indicando la sua Creativity Machine come autrice dell’opera e se stesso come richiedente, in quanto proprietario della macchina. Tuttavia lo U.S. Copyright Office (U.S.C.O.) aveva rigettato la domanda, ritenendo che l’opera non potesse beneficiare della tutela riconosciuta dalla normativa statunitense sul Copyright proprio perché mancava l’apporto creativo umano.

In seguito al rigetto, lo scienziato americano ha presentato ricorso al Review Board, chiedendo di riconsiderare la decisione dell’U.S.C.O. sulla base di due motivazioni.

In primo luogo, il Dott. Thaler ha sostenuto che nella legislazione americana non c’è un espresso divieto di accordare tutela alle opere create da un’intelligenza artificiale.

In secondo luogo, il ricorrente ha precisato come sia già possibile negli Stati Uniti che entità artificiali abbiano i “diritti di copyright” su opere d’arte, come avviene nel caso delle società. E infatti nel caso di opere creative realizzate dal dipendente nell’ambito delle sue mansioni, i diritti di sfruttamento economico dell’opera spettano al datore di lavoro che, se è una società, risulta titolare dei relativi diritti sull’opera. Lo stesso accade quando una persona giuridica acquista i diritti d’autore sull’opera: anche in tal caso è un’entità non umana, ossia la società acquirente, ad essere titolare dei diritti. Ricordiamo che il sistema statunitense del copyright non è esattamente corrispondente al diritto d’autore che conosciamo in Italia: diversamente dal sistema europeo (e in estrema sintesi), negli Stati Uniti la legislazione sul copyright tutela essenzialmente i diritti patrimoniali d’autore ed è necessaria la registrazione dell’opera per far valere giudizialmente alcuni diritti.

Tuttavia, nemmeno il Review Board ha accolto la domanda di registrazione dello scienziato, confermando l’orientamento già espresso dall’U.S.C.O.

Secondo l’Ufficio, infatti, è indispensabile che ci sia un input umano perché sia accordata tutela autorale ad un’opera. Questo perché, in base al Copyright Act statunitense, possono essere protette da copyright soltanto gli “original works of authorship” (i.e. “opere d’autore originali”) che risultano fissate su un supporto tangibile. Rispetto alla definizione di “original works of authorship”, l’Ufficio ha ricordato come la Corte Suprema abbia sempre interpretato in modo uniforme detta definizione, presupponendo che si tratti di opere create dall’uomo e che debba sussistere un nesso tra la mente umana e l’espressione creativa.

Neppure la seconda argomentazione è stata accolta dal Review Board. L’Ufficio ha negato che le società, quali entità non umane, siano assimilabili alle macchine ai fini del copyright perché queste ultime non possono impegnarsi contrattualmente. Nel caso dell’opera realizzata dal dipendente, infatti, l’autore è vincolato da un valido contratto con la società, mentre la macchina non potrebbe stipulare alcun un contratto rispetto ai diritti d’autore sull’opera.

Quindi, seguendo i precedenti della Corte Suprema, anche il Copyright Office ha affermato che la paternità umana dell’opera è elemento essenziale al fine di ottenere la tutela offerta dalle norme sul copyright.

Ilaria Feriti